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Vincenzo Latronico: »L’ordine regna a Berlino«
Vincenzo Latronico

Vincenzo Latronico: »L’ordine regna a Berlino«

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L’ordine regna a Berlino

Auszug aus: »La chiave di Berlino«

A Berlino su Google Maps è sempre il 2019.

In quel periodo Google ha spedito nelle capitali europee una flotta di automobili munite di fotocamere e periscopi sul tettuccio: incrocio per incrocio, strada per strada, hanno scattato miliardi di immagini per comporre una versione digitalizzata dell’esperienza delle città. Ci sono tutte le facciate, tutti i negozi, le inferriate dei parchi, i cestini i parcheggi i marciapiedi. Come la mappa dell’impero di Borges, un progetto del genere deve lottare contro il fatto che, appena un’auto volta l’angolo, l’angolo cambia. E quindi periodicamente la flotta ripercorre le stesse vie, rifotografa i negozi cambiati, gli edifici costruiti o buttati giú, per aggiornare l’aspetto del mondo. Ma anche quando ne vengono scattate di nuove le vecchie immagini restano accessibili, come le stratigrafie di un palinsesto: sulla mappa di Bari, di Malmö, di Salonicco è possibile scegliere una strada e rivederne il volto passato, come in un film a ritroso.

Il palinsesto dà vita a una temporalità capricciosa. Zone diverse della stessa città sono fotografate in momenti distinti: su Google Maps, il tempo scorre a singhiozzo. La finestra di tua nonna c’è in due versioni, con le piante vive e poi morte, come lei. C’è una foto di casa tua oggi, che ci abiti da solo; e di quando ci vivevi col tuo compagno. C’è l’ufficio di lui, fotografato quando era in stage prima dell’assunzione e tu lo andavi a prendere all’uscita (riconosci la sua bici, legata a un palo di fronte); e molto dopo, quando si era già dimesso; ma non quello che c’è stato in mezzo, l’epoca in cui vivevate insieme e lui ti tradiva durante le trasferte. Il tuo studio di quel periodo invece c’è, quella chiazza sfocata sul balcone sei tu che piangevi al telefono; da allora la flotta di Google non è piú passata, quindi su Maps piangi ancora.

Questa temporalità ha qualcosa dell’esperienza reale di camminare nella città in cui sei cresciuto. Il tuo passato è lí, incastonato nel quartiere, ma non si stende sulla topografia in modo omogeneo: in quel parco avevi vent’anni; uscendo da quel portone otto; in quel negozio quattordici, ma era una sala giochi, allora… Allo stesso modo, nelle foto di Google Maps i tempi si compenetrano, tesi e antitesi coesistono. Nella stessa città, nella stessa strada, siete innamorati e divorziati, non sei ancora arrivato e sei già andato via.

A Berlino no. La tutela tedesca della privacy ha fatto sí che il progetto di Google venisse bloccato da una grandinata di cause legali: sono rimaste solo le foto scattate in quella prima campagna, fra il 2007 e il 2009. L’aeroporto di Tempelhof non diverrà mai parco, e resterà una stesa di cemento bordata di filo spinato a concertina; le gallerie dei miei amici non chiuderanno mai; nessuno dei palazzi in cui ho vissuto nell’arco di un decennio sarà mai un palazzo in cui ho vissuto io. Su Google Maps a Berlino è sempre il 2009, quando il suo mito era all’apice e io senza ragione in un giorno di aprile mi sono seduto in un caffè e ho deciso che avrei vissuto qui.

[…]

Questo spaesamento, questo senso di vuoto, mi sembra estremamente diffuso fra i miei amici e conoscenti, in Italia o a Berlino – quelli che con una brutta semplificazione sociologica potremmo chiamare millennial. Ne incolpiamo la gentrificazione, che infatti è un tema ossessivo per i miei coetanei, i primi esponenti della classe media a vedere il diritto alla casa come non piú acquisito (anche se non certo gli ultimi). Ma piú ci penso piú ho l’impressione che la città sia solo uno dei campi di gioco di un fenomeno molto piú vasto e pervasivo, epocale.

Negli stessi anni in cui cambiavano le nostre città si è consumata un’altra trasformazione: la digitalizzazione della realtà. L’appiattimento verso l’alto e la perdita delle unicità non hanno impattato solo sui nostri quartieri: sono esattamente ciò che è successo a ogni aspetto della nostra vita da che è stata fagocitata da internet.

Quando andavo alle medie una mia compagna visitava periodicamente il padre a Londra, e tornava con capi di abbigliamento rarissimi e speciali; tutta la classe provava invidia e quasi timore al pensiero dei jeans venuti da Londra. Adesso, naturalmente, i jeans che si trovano a Londra si trovano anche in rete, quindi anche a Matera, a Marsiglia, a Malchin. Questo annulla le invidie, il che significa, tecnicamente, che soddisfa i desideri. È vero, li soddisfa: nessuno piú sognerà i jeans da Londra che non ha modo di avere. Ma il prezzo della soddisfazione di questo desiderio è che i jeans da Londra – in quanto oggetto speciale, non perché caro ma perché unico – non esistono piú, come non esistono gli album musicali rari che si possono acquistare solo convincendo il negoziante della propria passione. Esistono tutti i jeans, che si trovano su Yoox o Zalando; e tutti i dischi, che si trovano su Soundcloud o Spotify. All’interno di questo orizzonte di ottime scelte sono stati eliminati i picchi di unicità, perché l’unicità era dovuta a una scarsità non economica. I jeans di Tatiana non erano piú cari, ma erano Londra; il bootleg degli Shelter costava come ogni altro disco, ma ti veniva concesso solo se venivi avvistato ad abbastanza concerti. C’erano bar noti solo per passaparola fra iniziati che non sarebbero stati rintracciabili con una ricerca localizzata sullo smartphone; c’erano zone e città e regioni vaghe in cui sarebbe stato impossibile orientarsi con Google Maps.

La scarsità non economica da questo punto di vista partecipa dell’inconoscibile, cioè del mistero. Il mistero è segno di una mancanza di ottimizzazione: c’è piú domanda che offerta, cioè può essere estratto piú valore. Per estrarlo è necessario appiattire le possibilità verso l’alto, portando a un miglioramento qualitativo che però è accompagnato dalla perdita di qualcosa di impalpabile che dà sapore alla vita e la rende speciale. Questa cosa che si perde è una storia, proprio quella di cui sentivo la mancanza: Tatiana va a Londra. Io mi faccio vedere nel negozio di dischi. Svoltando per caso alla strada sbagliata qualcuno scopre un bar in un cortile interno. Gli artisti mettono su un museo in una fabbrica abbandonata. Io e Andrea scacciamo un pipistrello dal nostro appartamento con tredici finestre.

Nella misura in cui coincide con la sparizione del mistero, la digitalizzazione delle nostre vite è un processo di disincanto. Lo è anche la gentrificazione; lo è anche invecchiare. E a tutti e tre i processi la mia generazione è particolarmente sensibile: una generazione che si è trovata a dover lottare per un diritto prima acquisito; che ha avuto modo di esperire, crescendo, la vita su entrambi i fronti dalla frattura digitale; che comincia a invecchiare. Siamo noi che sognavamo i jeans da Londra; che corteggiavamo i venditori di dischi; che saltavamo la scuola per passare ore in coda per i biglietti di un concerto nel sottopassaggio di Mariposa. Siamo noi che andavamo a Berlino attratti dalla misteriosa lanterna dell’abbondanza come falene o come ignavi di Dante.

Erano davvero esperienze uniche? O a renderle uniche era solo una scarsità incidentale, un’inefficienza a cui il mercato ha posto rimedio? O in realtà non erano affatto
speciali, e a essere unica era solo l’età che avevamo allora, che stinge nel ricordo su tutto ciò che tocca? La trasformazione delle nostre città somiglia a quella del nostro mondo. Il mistero è sparito nelle une come nell’altro; ed entrambe queste trasformazioni risultano indiscernibili da quella che nello stesso arco di tempo si è prodotta in noi, che avevamo vent’anni e non li abbiamo piú.

Però a volte ci ripensiamo, cediamo alle sirene della nostalgia, e proviamo a ricordarci com’era vivere in quella città piú sporca e disomogenea, di zone d’ombra e misteri, una città in cui ogni uscita era potenzialmente una scoperta, perché c’erano gli stradari ma non Google Maps. E se non ce la ricordiamo ci viene in aiuto Google Maps, dove a Berlino sarà sempre il 2009. Giriamo per le strade e riconosciamo tutto, perché lo abbiamo vissuto in un momento di particolare entusiasmo e ricettività ma anche, paradossalmente, perché quella ritratta lí è la città in cui non siamo ancora mai stati, quella che emana il mito che ci attrae. Quel mito è il mito dell’abbondanza, di una città tanto piena di vuoto da avere un aeroporto abbandonato e un negozio dove ogni cosa è un dono. Se vogliamo cercarlo, quel negozio, siamo certi che ci sarà ancora; e ancora ci sarà la scritta sulla facciata del suo palazzo. Wir bleiben alle, dice ancora: «Restiamo tutti qui».

 


 

Vincenzo Latronico ist Schriftsteller und Übersetzer. Sein neuester Roman »Le perfezioni« (Bompiani, 2022; Claassen, 2023) wird derzeit in mehr als zwanzig Länder übersetzt. Er selbst hat bereits Werke von Oscar Wilde, Alexandre Dumas, Jeff VanderMeer und George Orwell übersetzt. Er lebt in Berlin.

 

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